Plastica sulle spiagge: c’è il Plastic Radar di Greenpeace
Una mappa in continuo aggiornamento della plastica abbandonata sulle nostre spiagge e nei nostri mari. Si chiama Plastic Radar il progetto di mappatura interattiva lanciato un mese fa da Greenpeace per raccogliere dati sui rifiuti plastici che finiscono sulle coste italiane.
Partecipare è facilissimo: basta avere uno smartphone e usare l’applicazione di messaggistica Whatsapp. Ogni volta che si incontra un rifiuto di plastica abbandonato sulla sabbia o che galleggia in mare, si manda una foto con le coordinate geografiche al numero dedicato di Greenpeace: +39 342 3711267. Ogni segnalazione viene poi elaborata dalla ong e aggiunta ai dati già raccolti sul sito di Plastic Radar.
Greenpeace chiede inoltre di rendere visibili nelle foto inviate, per quanto possibile, il marchio e la tipologia di plastica del rifiuto trovato. «L’iniziativa – spiega Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia – oltre a far luce sui rifiuti più presenti nei mari italiani, vuole individuare anche i principali marchi che, da anni, continuano a immettere sul mercato enormi quantitativi di plastica, principalmente usa e getta, non assumendosi alcuna responsabilità circa il suo corretto riciclo e recupero. Se vogliamo fermare l’inquinamento nei nostri mari, è necessario che le grandi aziende affrontino concretamente le loro responsabilità, in particolare riguardo la plastica monouso, avviando immediatamente programmi che riducano drasticamente il ricorso all’utilizzo di imballaggi e contenitori in plastica usa e getta».
Per ora, dai dati raccolta nel primo mese della campagna e consultabili sul sito, risulta che i rifiuti più comuni rinvenuti in spiaggia e in mare sono le bottiglie e le confezioni di alimenti. «Con questa iniziativa invitiamo tutti gli amanti del mare a non rassegnarsi a convivere con la presenza di rifiuti in plastica ma ad accendere i riflettori su questo grave inquinamento che rappresenta una delle emergenze ambientali più gravi dei nostri tempi», conclude Ungherese.
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