Piantiamo gli alberi (ma con giudizio)
«C’è un macchinario magico che succhia l’anidride carbonica dall’aria, costa poco e si costruisce da solo. Si chiama albero».
Così spiega il più famoso giornalista ambientale del mondo, George Monbiot, in un video, subito diventato virale, in cui è affiancato dalla giovane attivista Greta Thunberg.
«La fotosintesi è, ad oggi, l’unica tecnologia davvero in grado di assorbire e stoccare CO2. Alberi, boschi, foreste, giungle, paludi sono una soluzione naturale per riparare il clima compromesso. Così negli ultimi tempi ha preso il via una specie di staffetta internazionale a chi pianta (o promette di piantare) di più. La Cina ha già avviato da anni il suo massiccio piano di riforestazione. L’Irlanda ha dichiarato che metterà a dimora 440 milioni di alberi fino al 2040, mentre la Danimarca ha organizzato una raccolta fondi televisiva per fare la stessa cosa. Il Senegal ha piantato 80 milioni di mangrovie, ripristinando parte degli ecosistemi distrutti dallo sfruttamento del territorio, e il governo etiope, lo scorso luglio nel bel mezzo dell’estate degli incendi, ha annunciato di aver piantato la bellezza di 350 milioni di alberelli in un solo giorno. Intanto la Billion Tree Campaign, indetta nel 2006 dalle Nazioni Unite e gestita dalla fondazione Plant for the Planet, è stata promossa in Trillion Tree Campaign e punta a raggiungere la considerevole cifra di mille miliardi di alberi sulla Terra».
La spinta verde che sta contagiando il pianeta è senza dubbio positiva, ma questo non significa che si possano piantare alberi ovunque e senza criterio, e soprattutto che si possa delegare completamente a loro la lotta al cambiamento climatico. Ne abbiamo parlato con Giorgio Vacchiano, ricercatore in pianificazione forestale all’Università di Milano, incluso da “Nature” nella lista degli 11 migliori scienziati emergenti al mondo.
«Prima di tutto gli alberi da soli non bastano. A livello mondiale, le piante riescono oggi ad assorbire il 25% delle emissioni antropiche di CO2. Secondo un recente studio del Politecnico di Zurigo, nel mondo esistono ancora 900 milioni di ettari, attualmente non coltivati né abitati, che potrebbero ospitare nuove foreste. Ammettendo che si riescano a piantare, durante la loro crescita, potrebbero arrivare ad assorbire 730 miliardi di tonnellate di CO2, circa un terzo di tutte le emissioni prodotte negli ultimi 200 anni. È tanto, ma non è sufficiente».
La seconda considerazione è che un albero, da solo, non è un ecosistema. Che è anche il motivo per cui Vacchiano preferisce parlare di “ettari di foreste” piuttosto che del numero di individui che le compongono.
«Piantare alberi e piantare boschi non è la stessa cosa. È vero che un albero, pure da solo, assorbe comunque CO2 con la fotosintesi, ma per farlo efficacemente nel tempo deve poter vivere tranquillo ed è più facile che ciò accada se si riescono a creare ecosistemi autosufficienti. Se piantiamo singoli alberi in città, non possiamo essere certi di che fine faranno dopo qualche anno. Se invece piantiamo un boschetto che possa pian piano formare il proprio suolo, catturare l’acqua della pioggia e trasmetterla da pianta a pianta, interagire con gli insetti, si formeranno tutte le dinamiche che rendono stabile e autonomo un ecosistema».
Veniamo dunque all’Italia. Anche da noi, a settembre, è stato lanciato un appello a piantare quanti più alberi possibile; ideatori dell’iniziativa sono i membri della Comunità Laudato si’, i primi firmatari sono il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso e il presidente di Slow Food Carlo Petrini. Il numero simbolico da raggiungere è 60 milioni, uno per ogni italiano.
«Noi della Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale siamo stati interpellati e abbiamo provato a fare due conti. Piantare 60 milioni di alberi formando dei boschi richiederebbe la disponibilità di 60-70mila ettari di terreno. Non sono tanti, ma non è così semplice trovarli perché è necessario che siano pubblici e liberi».
In Italia inoltre, a differenza di altri paesi nel mondo dove sono state avviate simili iniziative, non c’è un’emergenza forestale.
«La superficie delle nostre foreste sta in realtà già aumentando da sola, occupando terreni abbandonati a un ritmo di 30-40mila ettari all’anno. Negli ultimi 50 anni siamo passati da 6 milioni a 12 milioni di ettari, circa il 40% del territorio nazionale».
Qual è quindi il contesto in cui piantare alberi, anche in Italia, potrebbe fare la differenza?
«Al contrario di quanto avviene nelle campagne o in montagna, nelle zone di pianura vicino alle città non solo la foresta è scomparsa da centinaia di anni, ma stiamo perdendo anche il suolo, sempre più cementificato e impermeabilizzato. Nelle aree urbane e periurbane sarebbe perciò molto utile piantare alberi, ma non tanto dal punto di vista dell’assorbimento di CO2. Abbiamo infatti calcolato che questi ipotetici 60 milioni di alberi potrebbero catturare lo 0,1 o 0,2% in più delle nostre emissioni in un anno: meglio che niente, certo, ma non risolutivo. La grande differenza sarebbe sull’adattamento al cambiamento climatico: gli alberi sarebbero d’aiuto nell’abbassare le temperature, nel mantenere l’umidità, nel regimare l’acqua piovana durante i nubifragi. Permetterebbero insomma di tollerare meglio alcuni degli effetti peggiori dei cambiamenti climatici. Da questo punto di vista la proposta può perciò essere molto efficace. A patto, ovviamente, di fare le cose per bene, scegliendo le specie giuste, curando e proteggendo i nuovi boschi che si andranno a creare. Nel segno, come si legge nell’appello della Comunità Laudato si’, di una “riforestazione intelligente”.
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