Stefano Mancuso: perché sottovalutare il mondo vegetale è un errore
Nei suoi libri, il professor Stefano Mancuso spiega perché la sottovalutare il mondo vegetale è uno dei più grandi errori della storia dell’umanità. Le piante, dice, hanno già inventato il nostro futuro: basta prendere esempio da loro. Per farlo al meglio, ha fondato anche, insieme al sociologo Leonardo Chiesi, un master universitario presso l’Università di Firenze, che formerà professionisti con una visone più ampia e più verde.
Lei è considerato il padre della neurobiologia vegetale. Di cosa si tratta? È una disciplina nuova, nata solo nel 2005. Si occupa dello studio delle piante come esseri cognitivi, adottando una serie di tecniche normalmente utilizzate per lo studio dei comportamenti, della memoria e dell’intelligenza degli animali. Siamo abituati a pensare alle piante come a organismi passivi, ma in realtà hanno tutte le capacità che in genere attribuiamo solo al mondo animale e in alcuni casi sono anche più sensibili. Sono in grado di imparare dall’esperienza, dimostrando quindi di avere una sorta di memoria. Comunicano tra loro, scambiandosi ad esempio segnali di pericolo. E hanno persino relazioni sociali. Ad esempio nelle foreste, piante dello stesso clan si prendono cura insieme degli elementi più giovani, fornendo loro il sostentamento finché non siano in grado di arrivare alla luce.
Ha scritto che le piante sono organismi talmente diversi da noi che potrebbero quasi essere creature aliene. Quali sono le maggiori differenze fra il paradigma animale e quello vegetale? E perché è a quest’ultimo che dovremmo ispirarci per il nostro futuro? Il modello animale è basato su un sistema gerarchico, piramidale. A capo di tutto c’è il cervello, che controlla gli organi e le varie parti del corpo. È un paradigma certo molto efficiente in termini di velocità, ma ha problemi di fragilità e una certa rigidità. Le piante invece sono organizzate in maniera opposta, distribuiscono ciò che negli animali è concentrato. Le funzioni sono quindi decentralizzate sull’intero corpo, seguendo un paradigma di rete anziché una gerarchia. È un sistema più creativo, proprio perché non c’è un unico centro che prende le decisioni, ed è anche più robusto e resiliente. Non avere un unico centro vitale permette infatti alle piante di sopravvivere anche perdendo fino all’80% del proprio corpo, cosa ovviamente impossibile per qualunque organismo animale. A mio parere è un sistema più moderno e non è un caso che Internet sia organizzata così, su un modello diffuso, di rete, come del resto anche wikipedia, le cripto valute e tutte le nuove realtà basate proprio sull’assenza di un centro di controllo. Le piante sono maestre in questo e hanno già risolto diversi problemi evolutivi – come la scarsità di risorse o la produzione di energia – che ci affliggono oggi come specie. Ci sono voluti più di 500 milioni di anni di evoluzione: studiarle e imparare da loro potrebbe fornirci le risposte per il nostro futuro.
Eppure la botanica non è una disciplina così popolare… Abbiamo un enorme problema di sottovalutazione dell’importanza del mondo vegetale. E non mi riferisco solo all’opinione pubblica, ma allo stesso ambiente scientifico. Le piante sono da sempre considerate creature passive. È una delle idee più sbagliate dell’umanità, soprattutto se si pensa che la nostra vita e quella di tutto il mondo animale dipende da loro. Stiamo perdendo molte opportunità di trovare soluzioni concrete a problemi fondamentali per la nostra civiltà. Pensiamo ad esempio all’energia: se una piccola percentuale delle risorse dedicate alla ricerca sul nucleare si dirottasse sullo studio della fotosintesi, potremmo fare passi da gigante in campo energetico, avremmo finalmente una fonte pulita, sostenibile e potenzialmente inesauribile. Eppure al mondo esistono solo quattro o cinque gruppi di ricerca su questo tema.
Oltre al settore energetico, in quali altri campi può venirci in aiuto lo studio delle piante? Praticamente in ogni campo! Si va da settori dove il mondo vegetale è già di casa, come l’alimentazione o la farmaceutica, all’ingegneria, dall’invenzione di nuovi materiali alle applicazioni architettoniche e alla progettazione urbanistica, fino all’organizzazione sociale.
Questa multidisciplinarietà è appunto la caratteristica del master “Futuro Vegetale”… Infatti. È il motivo per cui abbiamo deciso di non porre limitazioni alla formazione dei partecipanti: ci si può iscrivere a prescindere dal tipo di laurea che si ha, scientifica, umanistica o tecnica. Ci sono architetti, ingegneri, agronomi, sociologi, persino musicologi. Vogliamo formare dei professionisti nuovi, che partendo ciascuno dalle proprie discipline di riferimento siano in grado di utilizzare uno strumento inedito, ovvero la capacità di guardare alle piante non più come a organismi passivi, ma come fonte di ispirazione e soluzioni per il nostro futuro.
di Giorgia Marino
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