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Intervista a Piero Angela

di Redazione Casa Naturale

Piero Angela

La prima trasmissione di Piero Angela sui temi dell’ambiente risale al 1971. Da 40 anni Piero Angela spiega e denuncia questioni importanti legate alla salvaguardia ambientale
L’arte divulgativa è nata con lui. E’ capace di trattare un argomento complesso e multidisciplinare in modo completo e semplice, affascinando lettori e spettatori e diffondendo la cultura scientifica, altrimenti relegata in spazi dove il grande pubblico non arriva. Casa Naturale ha intervistato Piero Angela per capire quali sono gli scenari futuri per l’ambiente, letti da un punto di vista professionale, e come, nel tempo, è cambiata la sensibilità sui problemi energetici, tra vuoto culturale e colpevole cecità.

Come si è sviluppata la sua coscienza ambientalista e come ha cominciato a coniugarla con la professione di divulgatore scientifico?
È molto semplice, è stato il buonsenso a muovermi. La conoscenza dei meccanismi della natura e della scienza mi ha permesso di capire i danni che, con leggerezza, si producono sull’ambiente. Ho scritto libri sui problemi legati al global warming a partire dai primi anni Settanta. Nel ‘71 nacque un programma intitolato “Dove va il mondo”: cinque puntate ispirate all’ormai storico volume “I limiti dello sviluppo”, pubblicato agli inizi degli anni Settanta per il Club di Roma; in questo volume erano già presenti tutti i temi oggi all’ordine del giorno: l’aumento della popolazione, dei consumi d’energia, l’esaurirsi delle risorse, i problemi dell’effetto serra. Sono 35 anni che se ne parla! Dopo questa trasmissione, realizzai, negli stessi anni, sei puntate per il programma “Nel buio degli anni luce”, e l’ossimoro del titolo è, di per sé, una denuncia. Negli anni seguenti scrissi due libri, tra cui “La vasca di Archimede”, dove, ispirandomi proprio al teorema di Archimede (un corpo immerso in un fluido riceve una spinta, dal basso verso l’alto, pari al peso del volume di fluido spostato), definivo il mondo come una grande vasca da bagno dove ogni volta che vi si butta qualcosa, bisogna aspettarsi una reazione proporzionata. In particolare, denunciavo l’incapacità della cultura di capirlo e di provvedere per porvi rimedio.

Secondo lei, dunque, la cultura ha un ruolo di primo piano nella soluzione ai problemi sull’ambiente?
Certo, ma è necessario ridefinire il concetto di cultura. In Italia pensiamo che la cultura sia quella che chiamo “il giardino dei piaceri intellettuali”, cioè la letteratura, la musica, il teatro, la pittura, la scultura. Ma non è solo questo, perché la reale cultura moderna consiste nel capire una società e i suoi cambiamenti. La cultura deve essere capace di leggere il proprio tempo, scriverne e trasformarlo. Proprio per questo la cultura è anche e soprattutto quella scientifica, l’unica in grado di fornire informazioni agli economisti e agli intellettuali perché capiscano il mondo attorno a sé. Il fatto che, dopo 35 anni, si scopra una cosa che le persone avvedute e illuminate proclamavano, scrivevano e trasmettevano già 35 anni fa, significa che il pericolo non è l’ambiente, non è nelle discariche o nell’effetto serra, ma nel cervello della gente.

Rispetto agli anni Settanta, però, la sensibilità sull’argomento è aumentata.
Sì, la sensibilità è aumentata, ma in forma terroristica. L’ambiente viene visto come una minaccia inevitabile e sempre più frequenti sono le intimidazioni che parlano di collasso e crisi ineluttabili. Ma è evidente che se una nave va contro un iceberg, la colpa non è dell’iceberg, è di chi non fa le manovre necessarie in tempo: e torniamo al punto di prima. Esiste una situazione di incapacità di capire e di agire, e questo deriva dal fatto che siamo programmati, nel nostro cervello, ad una sopravvivenza per pericoli a breve termine, quelli che vediamo attorno a noi. Quello che c’è oltre non ci interessa, tanto meno ci interessa una cosa lontana, ancor meno se si tratta di una cosa che non riguarda direttamente noi o la nostra famiglia. Si tratta, ancora una volta, di un problema culturale.

La sua carriera è basata sull’abbinamento fra comunicazione e scienza. Crede che la divulgazione scientifica sia una soluzione ai problemi legati all’ambiente?
In parte sì, credo che la comunicazione sia parte della soluzione e si tratta di un meccanismo semplice: viviamo in società dove le decisioni sono prese dai politici sulla base delle spinte elettorali; il politico fa quello che gli chiede l’elettore, perché altrimenti non riceverà più il suo voto. Se l’informazione che è rivolta al grande pubblico riesce a creare nell’opinione generale dei cambiamenti di orientamento, allora il politico deve prendere delle decisioni coerenti con la volontà degli elettori. Se però il pubblico è informato male, il politico lo segue, le conseguenti azioni risulteranno negative. L’informazione può entrare in questo circolo vizioso e inserirsi, nel sistema, come un virus.

Nella sua recente conferenza sull’ambiente, di Bolzano, ha sottolineato il nesso fra la questione energetica e l’emancipazione delle donne. Come sono collegate?
Ne parlo anche nel mio ultimo volume “La sfida del secolo”, dove uno dei capitoli si intitola proprio “Liberazione femminile: un sottoprodotto del petrolio”. Se si guarda la storia dell’umanità, la donna è sempre stata la più sacrificata; era relegata a ruoli definiti esclusivamente dalla sua biologia, ci si sposava a 14 anni, si faceva un figlio dopo l’altro, spesso si moriva di parto, si era analfabeti…ed era la condizione di tutta l’umanità. Si lavorava con la zappa, si produceva poco cibo, non c’era nessuna donna che svolgesse lavori alternativi al settore dell’agricoltura. Allora il 60% delle persone lavorava nei campi (perché coltivando con la zappa, si produceva poco cibo, quindi tutti dovevano lavorare con lo stesso obiettivo). Man mano che la tecnologia ha mandato nei campi strumenti più efficienti, la percentuale di lavoratori dediti all’agricoltura è diminuita e, oggi, negli Stati Uniti, solo lo 0.7% della popolazione lavora nei campi, in Italia il 5%, in Nigeria il 90%. Più un paese è industrializzato, meno ha addetti all’industria, perché subentra l’automazione. A quel punto, le persone, soprattutto le donne, si liberano e si spostano verso altre professioni, nel passato inesistenti.

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Qual è la sua opinione sulle energie rinnovabili e sul nucleare?
Nel libro “La sfida del secolo” Lorenzo Pinna, coautore, ed io cerchiamo di spiegare che bisogna stare molto attenti quando si parla di energie rinnovabili perché esistono, lo sappiamo, ma il problema è di quantità. Quanta se ne può ricavare? Nel mondo, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (www.iea.org) che fornisce le informazioni sull’energia ai paesi industrializzati, i dati rilevano che attualmente solo l’1% dell’energia disponibile deriva dagli impianti solari e eolici; secondo le previsioni, nel 2030 si passerà al 2%. Anche se fosse 20%, l’altro 80% da dove si potrà ricavare? Si dimentica, inoltre, che le fonti rinnovabili hanno problemi non da poco. Il primo è che sono intermittenti, quindi bisogna creare centrali d’appoggio (se un impianto solare, per esempio, funziona per 8.000 ore all’anno, si ricava energia solo in 1.000/2.000 ore). La seconda è che anche queste centrali, comunque, inquinano. Riguardo al nucleare, il conto sicurezza sulle energie dimostra come il nucleare sia la forma di recupero di energie che, nella storia, ha danneggiato di meno l’ambiente. Il caso di Chernobyl è l’unico che abbia creato danni all’uomo. Io, come la quasi totalità dei fisici che conosco, sono a favore del nucleare; gli unici che lo combattono sono i letterati che, appunto, svolgono un’altra professione. Come dice il proverbio, non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena, bisogna scegliere, ahinoi, il male minore, e il nucleare è la scelta più razionale. Inoltre, chi è contrario al nucleare dovrebbe fornire un’alternativa efficace e l’unica è la regressione, la creazione di una società basata sul modello del monastero. E’ fattibile?

Infine, esiste qualche motivo per sentirsi ottimisti sul destino della terra?
Ci sarà petrolio per altri 40/50 anni, metano per un tempo pressoché equivalente, carbone per 150 anni. In media avremo energia per altri cento anni, quindi, di buono, c’è che fra un secolo non ci sarà più niente da bruciare e non potremo più alimentare l’effetto serra. L’ambiente sarà salvo; l’uomo forse no. La natura sarà in grado di rigenerarsi, perché è più forte e resistente di quanto non sia l’uomo. Sapere che la natura resisterà è quanto di più positivo si possa pensare.

di Antonia Solari – Riproduzione riservata

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